Racconti Italiani by scelti e introdotti da Jhumpa Lahiri

Se l’America è un poema epico, la Francia una poesia e l’Inghilterra un romanzo (comico, ultimamente), l’Italia è un racconto. Jhumpa Lahiri ha visto giusto, perciò. Questa autrice anglo-indiana, innamorata della lingua italiana, ha costruito la sua antologia - quaranta autori del XX secolo, nessuno vivente - partendo proprio da questo assunto: il racconto è la forma letteraria italiana autoctona, le altre sono state importate. Le origini risalgono all’anonimo autore del Novellino (XIII secolo) e al Decamerone di Giovanni Boccaccio, scritto probabilmente tra il 1349 e il 1351.

“Fuggevoli per natura,” - scrive Jhympa Lahiri - “i racconti, nonostante l’inevitabile con- cisione e densita` , sono infinitamente flessibili, aperti, indagatori, inafferrabili, tanto da suggerire che il genere stesso sia di natura fondamentalmente volubile, ibrida, persino sovversiva.” Non è il ritratto dello spirito italiano? Non solo quello del XX secolo, rappresentato in questo libro, ma anche quello attuale, in bilico tra tentazione demagogiche - Matteo Salvini è un giovane Donald Trump all’amatriciana - e antica saggezza. Prendete i primi titoli di questa raccolta: sembrano un riassunto dell’Italia del 2019/2020. Conduciamo

Fantasticheria, ascoltiamo La sirena del populismo, ci consoliamo con Vino generoso sapendo che il nostro è un Lungo viaggio, cominciato duemilaottocento anni fa, e pieno di sorprese.

Gli autori dei racconti citati sopra sono, nell’ordine, Giovanni Verga, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Italo Svevo e Leonardo Sciascia. La curatrice ha, infatti, scelto l’ordine alfabetico inverso. Dei quaranta racconti, sedici non erano mai stati tradotti in inglese prima d’ora, otto sono stati ritradotti. Molti tra gli scrittori presenti nell’antologia sono stati traduttori, diversi hanno usato pseudonimi (Elena Ferrante non è certo la prima!). Alcuni erano ignorati, o dimenticati, anche in Italia. Quasi tutti, scrive la curatrice, erano - come lei - “individui ibridi, con molteplici inclinazioni, identità, caratteristiche e ombre.” Averli ritrovati, sistemati e riproposti è certamente un merito. Ma Jumpha Lahiri ha un merito ancora maggiore: li ha capiti. E ama il loro comune denominatore: l’Italia.

Solo i superficiali, tra i quali vanno annoverati non pochi travel writers, considerano l’Italia un mosaico disarmonico e provvisorio, fatto di tradizioni regionali e città rivali. Che esistano, è chiaro. Ma esiste anche un tessuto di fondo, fatto di gentilezza, fantasia e gusto. Di empatia e intuizione, perfino eccessiva. Di irrequietezza che sfocia nell’incoerenza. Di resilienza quotidiana, premiata dalla dolcezza dei luoghi. Di emotività che talvolta sconfina nell’inaffidabilità. Di capacità di vedere le persone, che altrove nel mondo sono abituate a essere soltanto guardate.

Questa è l’Italia. E Racconti italiani lo dimostra meglio di qualsiasi guida di viaggio.

Non è possibile, nello spazio di una recensione, segnalare tutti i racconti illuminanti contenuti nel volume, preceduti da una sintetica presentazione di chi li ha scritti. Alcuni, com’è ovvio, mi hanno colpito di più altri. Mi sono accorto, dopo averne redatto l’elenco, che erano i più vicini nel tempo: quelli che raccontano un’Italia che ho conosciuto; oppure, nell’infanzia e nell’adolescenza, ho intravisto. Tra questi c’è lo strano viaggio raccontato da Antonio Tabucchi, intitolato

Controtempo. O la spietata descrizione delle proprie abitudini sessuali da parte del protagonista di Il peripatetico, scritto dal toscano Luciano Bianciardi (il suo romanzo La vita agra, del 1962, racconta il conflitto di molti italiani che arrivano a Milano per lavoro). Oppure - un pezzo forte dell’antologia - la surreale descrizione della capitale d’Italia contenuta in Un marziano a Roma, capolavoro di Ennio Flaiano, che fu anche sceneggiatore di Federico Fellini. Se i nomi sono cambiati, molte situazioni sono rimaste simili (“Al Campidoglio, il Sindaco si è coperto di ridicolo parlando di Roma maestra di civiltà”).

Alcuni personaggi sono stagliati come in una fotografia, e non si dimenticano. La madre e la figlia di Alla stazione, proposte da Carlo Cassola. Il ritratto di famiglia in Eppure battono la porta, dove Dino Buzzati riesce a combinare sovrannaturale e domestico, come nelle opere migliori. Silvia, la bambina triste, è la protagonista di Malinconia di Goffredo Parise, un chimico dei sentimenti (nei Sillabari, da cui il racconto è tratto, si parla del “sentimento italiano senza nome”, che ognuno di noi conosce e nessuno sa spiegare). La moglie-scimmia (La babbuina) di Giovanni Arpino, un autore che ho conosciuto di persona negli anni ‘80 (amava i giornali, si rivelò un magnifico giornalista sportivo). E la ”moglie scollata” di Alberto Moravia - raccontata in prima persona femminile (L’Altra faccia della luna) - piena di insoddisfazione, superficialità e fatalismo. Una combinazione di sentimenti ancora oggi diffusa, dentro e fuori i matrimoni.

Lo stesso Alberto Moravia, una volta, scrisse: il genere letterario del racconto nasce da un’intuizione. Ce ne sono molte, nell’antologia curata da Jhumpa Lahiri. Ecco perché Racconti italiani costituisce una ottima introduzione all’Italia, un baedeker sentimentale utile per viaggiare nella mente di una nazione affascinante, ma sfuggente. Noi italiani ci divertiamo a confondere chi ci guarda. Ma se chi ci guarda dimostra di capirci, ci dimostriamo riconoscenti, e siamo disposti ad aprire le finestre su un’Italia nuova. Non le solite colline toscane, rovine romane e acque veneziane. Un’Italia diversa. Vitale, pulsante e non meno affascinante.

Beppe Severgnini è editorialista del Corriere della Sera e contributing opinion writer per The New York Times. È autore di diversi libri tra cui La testa degli Italiani e La vita è un viaggio